venerdì 25 gennaio 2013
martedì 22 gennaio 2013
Fatti per non durare

Vi siete mai chiesti perché certi giocattoli si rompono subito? Perché è così faticoso trovare pezzi di ricambio per un elettrodomestico? Perché il computer che avete in casa dopo pochi mesi è già diventato un pezzo da museo? La risposta è più semplice di quanto si potrebbe immaginare, e si può riassumere in due parole: obsolescenza programmata. Questa espressione indica una precisa intenzione nel progettare e costruire oggetti affinché durino poco. Il ragionamento è impietoso ma chiaro: il sistema economico-monetario che regola la nostra società sta in piedi solo se si continua a consumare senza sosta, e per questo occorre crearne il bisogno, la necessità. E cosa c’è di più efficace del mettere a disposizione dei consumatori oggetti pensati e realizzati per rompersi o diventare obsoleti in breve tempo?
La lampadina di Livermore
Nel giugno di quest’anno la cittadina di Livermore in California ha festeggiato i 110 dieci anni della sua storica lampadina, installata nel 1901 nella caserma dei vigili del fuoco e rimasta accesa da quell’anno praticamente senza sosta. Fu un vero e proprio evento quando nel 1976 questa lampadina venne spenta per ben 23 minuti, per essere trasferita con tutti gli onori nella nuova sede dei pompieri. La sua potenza di 4 Watt è piuttosto ridotta, ma considerando la sua veneranda età viene spontaneo chiedersi: per quale motivo le lampadine a incandescenza che tutti noi abbiamo usato fino all’avvento di quelle a risparmio energetico, duravano tutt’al più qualche mese? Ginevra, 23 dicembre 1924: i maggiori produttori di lampadine elettriche di tutto il mondo si riuniscono in segreto allo scopo di regolamentarne la produzione, i prezzi e in seguito di elaborare strategie per ridurne la durata. Quel giorno si costituisce di fatto il primo cartello mondiale, chiamato Phoebus, dedicato a spartirsi il mercato delle lampadine elettriche. Da allora gli ingegneri cominciarono a sperimentare tecnologie in grado di realizzare filamenti più fragili, e in pochissimo tempo la durata media delle lampadine in commercio scese da 2500 a 1500 ore.
Negli anni ’40 i membri di Phoebus hanno raggiunto il loro obiettivo: praticamente tutte le lampadine erano garantite per durare solo 1000 ore. Chi voleva avere la luce elettrica doveva comprare spesso nuove lampadine, e loro ne decidevano il prezzo. L’obsolescenza programmata era quindi già una realtà, benché sia stata sviluppata come preciso modello industriale solo qualche anno più tardi. Ci troviamo di fronte infatti a una lucida strategia codificata, che ha l’obiettivo di mantenere costante la crescita economica a scapito di qualunque altro valore o priorità. Se ne discuteva già apertamente negli anni ’30 come di un «metodo d’elezione» per uscire dalla cosiddetta Grande Depressione. Il termine obsolescenza programmata viene utilizzato per la prima volta in un libretto scritto nel 1932 da un certo Bernard London, nel quale l’autore scarica la colpa della depressione economica su quei consumatori che disobbediscono «alla legge dell’obsolescenza» continuando a utilizzare la loro vecchia auto, la vecchia radio, i vecchi vestiti per un tempo più lungo di quello stimato dagli esperti, scaduto il quale lui propone di dichiararli «legalmente morti» e di tassarne l’uso!
Nel 1940 il colosso chimico Dupont lanciò sul mercato una fibra sintetica dalla straordinaria robustezza, alla quale avevano alacremente lavorato i propri ingegneri: il nylon. Dopo un primo boom, le vendite di calze da donna calarono in maniera vistosa. Ovviamente essendo così resistenti duravano molto a lungo, e non vi era bisogno di sostituirle. Spronati a cercare di indebolire la fibra, gli ingegneri della Dupont modificarono le quantità di certi additivi che proteggevano il polimero dai raggi UV, rendendo le calze più fragili e quindi soggette a rottura. A partire da quel periodo, la logica del profitto infinito basato sul consumo infinito è entrata nelle nostre case senza chiedere il permesso, e ci ha plasmati negli anni. Lavoriamo per comprare ciò che è costruito per rompersi, così dovremo lavorare di più per comprare più oggetti che si romperanno. E non si tratta solo di una necessità oggettiva: questa strategia, abbassando la qualità e quindi il costo degli oggetti, ha instillato nei consumatori il desiderio di possedere qualcosa sempre un po’più nuovo, un po’ migliore e un po’ prima del necessario, come aveva ben compreso il designer americano Brooks Stevens, che su questo concetto basò una conferenza nel 1954. A titolo di esempio diametralmente opposto, è interessante sapere che nella Germania dell’Est, prima della caduta del muro, per legge i frigoriferi e le lavatrici dovevano durare per almeno 25 anni.
Come fare
Ci sono diversi modi per rendere vecchio e superato un oggetto, per indurre chi lo possiede a buttarlo e a sostituirlo con un altro. Per esempio, può essere progettato per funzionare per un periodo limitato di tempo, con componenti impossibili da sostituire perché non vengono più prodotti, o perché sostituirli costa di più o quasi quanto acquistare un oggetto analogo nuovo. Un altro modo è quello di rendere l’oggetto non più compatibile con il sistema all’interno del quale funziona, com’è il caso dei software un po’ datati che non girano sui nuovi sistemi operativi, o viceversa dei vecchi sistemi operativi incompatibili con i programmi di ultima generazione. Secondo il sito italiano della Microsoft, un computer può durare 3 o 4 anni. Un’indagine di Greenpeace dimostra che il periodo di funzionamento dei pc in realtà è di circa 100.000 cicli di accensione e spegnimento, mentre di norma vengono adoperati solamente per il 15-20% della loro vita utile.1 Esistono associazioni e tecnici che con qualche accorgimento sono in grado di far girare i più recenti sistemi operativi Linux e i programmi open source sui Pentium vecchi anche di 10 anni.
Un’altra tecnica dell’obsolescenza programmata è legata all’estetica e al design: sia che si tratti di auto che di vestiti o cellulari, chi utilizza un modello vecchio è lui stesso fuori moda. Oggi l’obsolescenza programmata si insegna nelle scuole di design e di ingegneria e si chiama «ciclo di vita del prodotto». Si insegna ai designer a progettare beni con l’obiettivo di indurre il compratore ad acquisti frequenti e ripetuti, secondo le strategie di business delle compagnie per cui lavorano. Ma l’obsolescenza può anche essere una conseguenza indiretta del sistema produttivo: per tagliare i costi, si potranno scegliere materiali più scadenti, oppure trascurarne la progettazione.
Tutto questo si traduce in qualità e durata inferiori. Nel monte globale dei rifiuti rientrano i cosiddetti e-waste, i rifiuti elettronici, il cui accumulo è diventato un fenomeno talmente preoccupante da indurre l’Unep2 a realizzare un’indagine per stimarne con precisione la quantità. La ricerca ha analizzato la situazione in undici paesi diversi: quello più a rischio è l’India, dove si stima che i rifiuti elettronici cresceranno con un ritmo pari al 500%; si calcola che in Cina l’aumento sarà del 400%, mentre la quantità dei cellulari scartati crescerà di sette volte, in India di 18 volte. Per lo più questi apparecchi dismessi finiscono in gigantesche discariche a cielo aperto, dove i ragazzini delle famiglie più povere si intossicano di diossine e altri veleni, bruciandoli per ricavarne tutto il metallo possibile, da vendere per qualche soldo. Anche in Occidente i rifiuti vanno a riempire le discariche (in Italia ormai vicine alla completa saturazione) o vengono bruciati negli inceneritori con emissione in atmosfera di tonnellate di fumi tossici e la produzione di ceneri ancora più tossiche, e solo in piccola parte vengono effettivamente avviati al riciclo e al riuso.
Davide contro Golia
Nel 2003 i fratelli Van e Casey Neistat, videoartisti di New York, crearono un filmato dal titolo The iPod’s Dirty Secret (lo sporco segreto dell’iPod), una campagna mediatica di denuncia verso la politica della Apple di non offrire batterie di ricambio per gli iPod e di invitare i clienti a comprarli nuovi. In sei settimane il video è stato visto oltre un milione di volte, e lo stesso anno alcuni clienti fecero causa alla Apple tramite una class action. Agli atti del processo, un’ingente documentazione tecnica sulle batterie al litio degli iPod rese evidente che erano state progettate per avere una durata davvero breve. La vertenza si è risolta con un indennizzo agli utenti, l’apertura di un servizio di sostituzione delle batterie e l’elevazione della garanzia a due anni. «La sensazione è che ci siamo ormai assuefatti, inconsapevolmente o no, a questo sistema» osserva Davide Lamanna, responsabile della cooperativa Binario Etico, consulente informatico, ricercatore universitario e da anni impegnato su questi temi. «Fino a trenta o quaranta anni fa tutti quanti davamo per scontato che gli oggetti durassero almeno venti o trent’anni. Oggi ci siamo abituati a pensare che la vita media di un oggetto sia dieci volte inferiore. E la filosofia dell’usa e getta, se la si guarda da un punto di vista antropologico, rischia di essere applicata anche alle relazioni sociali, al modo con cui si affronta il rapporto con gli altri».
«È evidente che non ci possiamo più permettere di continuare così. Un frigorifero o un’automobile, per essere prodotti, hanno bisogno di petrolio e materiali per due volte il loro peso. Per i computer la proporzione diventa uno a dieci solo per la fase produttiva, senza contare il consumo successivo di energia. «Magari un computer che potrebbe durare quindici anni, lo usiamo solo per tre anni» continua Lamanna. «Poi finisce in discarica con tutto quel mercurio, quel piombo, quel cromo esavalente che contamina l’ambiente. Tutti ormai si rendono conto che chi produce scoraggia il riuso e il recupero effettivo. È qui che ciascuno di noi può fare la sua parte. Dobbiamo proporre un’alternativa dal basso cominciando a mettere in campo meticolosamente il riuso, il riciclo, un approccio critico al consumo. Occorre anche mobilitarsi, è il momento di entrare a far parte di organizzazioni che siano di stimolo ai politici e agli amministratori.La cosa importante è che la consapevolezza sia vasta, il più possibile».
Lamanna incoraggia poi l’arte della riparazione: «Dobbiamo riappropriarcene, dobbiamo cercare, informarci, attivarci, mettiamo a disposizione le conoscenze, condividiamole e re-impariamo l’arte del fare».
Articolo ripreso da Comuni Virtuosi e tratto da Terra News
domenica 20 gennaio 2013
Entro il 2050 consumo di suolo pari a zero: parola d’Europa

tratto da salviamoilpaesaggio
Con il documento “Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo” la Commissione Europea ha di recente posto l’attenzione all’eccessivo consumo di suolo nel Vecchio Continente.
La sfida – peraltro ambiziosa come ammette lo stesso Janez Potočnik commissario europeo per l’ambiente – è quella per cui ogni Stato membro dovrà tener conto delle conseguenze derivanti dall’uso dei terreni entro il 2020, con il traguardo di un incremento dell’occupazione di terreno pari a zero da raggiungere entro il 2050.
“La posa di superfici impermeabili nel contesto dell’urbanizzazione e del cambiamento d’uso del terreno, con conseguente perdita di risorse del suolo, rappresenta una delle grandi sfide ambientali per l’Europa d’oggi” scrive nella prefazione al documento Potočnik.
Prima di addentrarsi a spiegare quali possono essere gli approcci tesi a limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, la Commissione Europea indica un elemento di base necessario per raggiungere l’obiettivo “consumo di suolo = zero”: la piena collaborazione tra tutte le autorità pubbliche competenti, non solo dei dipartimenti preposti alla pianificazione e alle questioni ambientali ma anche, e in particolare, quegli enti governativi (Comuni, Province e Regioni) che gestiscono un territorio. È quindi ora che il consumo di suolo diventi un’aspirazione condivisa.
Dalla metà degli anni ’50 la superficie totale delle aree urbane nell’UE è aumentato del 78% mentre la crescita demografica è stata di appena il 33%.
Questo significa che in tutta Europa la tendenza a “prevedere” piani di espansione urbanistica senza un’equilibrata correlazione con le effettive esigenze demografiche è prassi comune.Attualmente, le zone periurbane presentano la stessa estensione di superficie edificata delle aree urbane, tuttavia solo la metà di esse registrano la stessa densità di popolazione.
Lo sprawl è un fenomeno pericoloso: la diffusione di nuclei caratterizzati da bassa densità demografica costituiscono una grande minaccia per uno sviluppo urbano sostenibile.
Inoltre l’espansione della città eleva i prezzi dei suoli liberi entro i confini urbani incoraggiando così il consumo verso l’esterno, consumo che a sua volta genera nuove domande di infrastrutture di trasporto e pendolari che si spostano per raggiungere il proprio posto di lavoro.Passiamo all’aspetto dell’impermeabilizzazione.
Oltre a ridurre gli effetti benefici che un terreno ha sull’ecosistema, l’impermeabilizzazione di un ettaro di suolo significa far evaporare una quantità d’acqua tale per cui viene impiegata l’energia prodotta da 9000 congelatori, circa 2,5 kWh, per rendere quel terreno arido. Supponendo che l’energia elettrica costi 0,2 EUR/kWh, un ettaro di suolo impermeabilizzato fa perdere circa 500mila euro a causa del maggior fabbisogno energetico.Limitare l’impermeabilizzazione del suolo è sempre prioritario rispetto alle misure di mitigazione ma laddove questo non avviene verde pubblico e uso di materiali permeabili sono i due principali elementi per tendere verso il risparmio energetico.
Tale risparmio è un vantaggio per le economie europee vessate dalle spese: ad esempio un tetto verde riduce i costi energetici di un edificio dal 10% al 15%.
Per non parlare dell’inquinamento: un albero calato all’interno di un contesto urbano può catturare 100 grammi netti di polveri sottili l’anno. Calcolando i costi di riduzione delle polveri, piantare un albero in città significa investire 40 euro all’anno.
Queste sono solamente alcune delle buone prassi che l’Europa caldeggia in fatto di limitazione del consumo di suolo e indica come ultima spiaggia la “compensazione”, sempre che questa non si trasformi in mero “green washing”.
Maurizio Bongioanni
Scarica la pubblicazione in formato pdf (5,6 Mb) >
mercoledì 2 gennaio 2013
IL MIGLIOR DISCORSO DEL MONDO – Presid Josè Mujica
IL MIGLIOR DISCORSO DEL MONDO – Presid Josè Mujica
Iscriviti a:
Post (Atom)